Intervista a Mario Deriu, segretario del sindacato di polizia Siulp della Provincia di Bolzano.
La situazione al Brennero ormai da qualche anno vede i poliziotti in prima linea, ma con pochi strumenti a disposizione. Può raccontare?
La situazione è iniziata a diventare preoccupante circa tre anni fa. All’epoca tutti sembravano sottovalutare gli effetti dei disordini e delle guerre in corso nell’area mediorientale e nel continente africano. Noi, come Polizia di Stato, per forza di cose, siamo stati i primi in assoluto a registrare il problema e a portarlo all’attenzione. Solo in un secondo momento si sono avvicinate le associazioni umanitarie e solo successivamente la politica ha volto lo sguardo in questa direzione.
Fin dal primo anno, come organizzazione sindacale, abbiamo fatto presente quanto fosse complicato fotosegnalare persone che stavano scappando. E questo per un motivo molto semplice: il vincolo di Dublino III che obbliga i migranti a restare nel primo Paese d’approdo, impedendogli quindi di raggiungere il Nord, il loro obiettivo.
Inizialmente ho avuto forti contrasti sia con l’amministrazione, il questore, sia con il dipartimento perché sottovalutavano il problema: fotosegnalare è un obbligo giuridico, quindi va fatto, punto. Per i poliziotti si presentava anche il rischio di potenziali denunce. Davanti a persone che esercitavano una resistenza passiva, dovendo in qualche modo ricorrere alla forza, c’era il reale pericolo di procurare delle lesioni. Ma soprattutto c’era un grande disagio. Io ricordo i colleghi che mi chiamavano: "Ma Mario come facciamo, questi sono in situazioni disperate”. All’epoca erano soprattutto siriani, uomini che arrivavano lì con niente se non i figli e la moglie. Si stringevano tra di loro e, appena capivano che li volevamo fotosegnalare, si buttavano per terra, si aggrovigliavano...
Ora, io capisco che bisogna essere rigorosi davanti alla legge, il nostro mandato istituzionale ce lo impone, ma di fronte a una situazione del genere mi sembrava una follia. Abbiamo allora chiesto degli incontri per rimodulare il sistema e per capire quantomeno -anche egoisticamente- cosa fare per evitare che i colleghi si mettessero nei guai.
Tenete presente che prelevare le impronte digitali è un’operazione sofisticata perché lo scanner fa una lettura a rotazione. Se un soggetto cerca di sottrarsi diventa complicatissimo e il rischio è anche quello di fare un pessimo lavoro dal punto di vista dell’identificazione. Io allora ho presentato uno scenario: se il profugo subisce delle lesioni e, tramite un’associazione umanitaria, si rivolge al pronto soccorso, la responsabilità giuridica (che fino a prova contraria è sempre personale) ricade sull’operatore che ha esercitato quella forza. A quel punto il magistrato lo mette sotto inchiesta. Bene, io questo, per tutela di rappresentanza, non lo posso permettere. Quindi, ho detto, o c’è un indirizzo che voi imponete, per cui ci obbligate a procedere anche a costo di procurare lesioni... Lì è scattato un po’ il panico.
Oggi, la polizia, se pur smilitarizzata, è militarmente organizzata. Ho chiesto allora che qualcuno di gerarchicamente superiore ci facesse vedere come dovevamo comportarci in concreto.
Il questore era perplesso, ma io ho ribadito che non volevo mettere in difficoltà nessuno, solo levare dai pasticci l’ultimo della ruota, l’agente. Perché il collega, quando lo mettono sotto inchiesta, nessuno lo soccorre.
Mi sembrava giusto che la responsabilità cadesse sulla filiera gerarchica che aveva imposto questo sistema. Così hanno mandato su un po’ di funzionari. Dopo qualche tempo ho chiesto come avessero risolto il problema. Ebbene, quando si sono accorti che il sistema non reggeva, che queste persone si sottraevano alle impronte digitali, si buttavano per terra, si contorcevano, in una situazione di grande imbarazzo anche dal punto di vista umano perché c’erano donne e bambini piccoli, hanno individuato una soluzione giuridica: l’articolo 650 del codice penale. Chi si sottrae a un’identificazione non ottempera alla disposizione data dall’autorità di polizia giudiziaria. In pratica, funziona così: io ti voglio identificare, se tu rispondi che non ti fai identificare, questo rifiuto è penalmente perseguibile. Con quale formula? Che io ti faccio la denuncia (cioè, attenzione, faccio la denuncia a uno che non so chi sia e che non ha un domicilio) col vincolo che il giorno successivo devi presentarti al commissariato o in questura per adempiere alle procedure. Una bella alchimia.
Cosa sono le scorte trilaterali?
Le scorte trilaterali nascono nel 2001 sull’onda dell’idea di costruire una sicurezza europea; si tratta di una sorta di scorta di rappresentanza costituita da polizia italiana, austriaca e tedesca, che sale sui treni internazionali per dare una parvenza di comunità europea e per prevenire reati predatori. All’inizio c’erano due-tre scorte all’anno.
La mia opinione è che quando hanno visto che il fenomeno stava esplodendo, non era più gestibile, hanno manipolato il concetto di scorta trilaterale e ne hanno fatto una scorta "trilaterale unilaterale”, nel senso che ci sono sempre i tre operatori, ma operano solo sul territorio italiano! Cioè, mentre prima gli operatori, tutti e tre, partivano da Bolzano e arrivavano a Monaco di Baviera, adesso partono da Trento e arrivano al Brennero. Al Brennero scendono i poliziotti italiani e l’austriaco e il tedesco proseguono il percorso. Cosa fanno da Trento a Bolzano? Controllano i controllori, cioè controllano che la polizia italiana faccia scendere tutti i profughi nel territorio italiano, impedendo l’accesso ai loro territori. Gli immigrati vengono fatti scendere lungo il percorso, un po’ a Bolzano, un po’ a Bressanone, un po’ al Brennero. La maggior parte arriva al Brennero. Anche perché far scendere tutta questa gente a Bolzano può creare qualche problema di ordine pubblico. In realtà, ripeto, rispetto al fenomeno dei profughi non abbiamo mai avuto problemi di ordine pubblico. Io francamente ho posto anche un problema di sovranità. Ci può stare tutto, però che i poliziotti austriaci e tedeschi salgano sui nostri treni per verificare che noi facciamo bene il lavoro... Allora noi siamo subalterni a qualcuno. E poi vorrei capire: che finalità ha questa operazione? Non certo quella di garantire la sicurezza. Durante il transito dei profughi, in due anni e mezzo non c’è stato un reato!
L’impressione è che si tratti di uno scaricabarile: non voglio che arrivino da me, li lascio da te... Sono d’accordo che non è corretto non identificarli, ma li dobbiamo anche mettere in condizione di farlo, perché se l’identificazione equivale a costringerli a stare qui e loro qui non ci vogliono stare?
Voi continuate a denunciare come sia molto difficile intervenire fino a che non verrà riformulato il Regolamento di Dublino.
Ritengo che il problema sia soprattutto di natura politica. Potendo rimodulare transitoriamente Dublino III, io credo che queste persone si farebbero identificare volontariamente e noi potremmo perfino pensare di accompagnarle dove vogliono arrivare.
Io non faccio che ribadire che questo non è un problema di polizia, noi non c’entriamo niente. Purtroppo, invece, già da alcuni anni tutto questo sistema sta gravando su di noi. Anche dal punto di vista umanitario, all’inizio i colleghi al Brennero si sono mossi anche per trovare le coperte, per dare il latte ai bambini, per portargli i biscotti.
E invece adesso noi rischiamo di sentirci dei kapò al servizio di altri.
Tra l’altro, le scorte trilaterali, oltre che a un’inutile dispendio di energie, uomini, risorse economiche, non hanno prodotto nulla, se non forse una maggiore percezione di sicurezza ai viaggiatori.
Cosa succede a queste persone una volta che vengono fatte scendere dai treni?
Li denunciamo ai sensi dell’art. 650 e gli diamo il biglietto di invito...
Ora tu immagina: parliamo di persone che hanno visto e vissuto il peggio della vita, morte, fame, disperazione, violenze di ogni genere, e che vedono quest’uomo in divisa che gli dice: "Ti denuncio ai sensi dell’art. 650”. A parte che non capiscono, ma cosa penseranno?
È mai venuto qualcuno a farsi identificare?
No, mai, zero! All’inizio si sentiva dire: ma perché non si fanno identificare, cosa gli costa? Ma perché dovrebbero? In particolare i siriani fanno tutti i ricongiungimenti familiari in Nord europa, cosa ci stanno a fare qua?
L’Italia però ha ricevuto molte critiche per non aver "fingerprintato” le persone, sia dalla Germania che a livello europeo. Ora è stato chiesto di far entrare nella normativa italiana la legittimità dell’uso della forza.
So che c’è stata un’iniziativa parlamentare per discutere la possibilità di utilizzare la forza per prendere le impronte. A parte che io ritengo non sia certo questa la soluzione, e comunque vanno garantite delle tutele agli operatori per evitare che chi utilizza la forza commetta a sua volta un reato. Ma detto questo, immaginiamoci la scena: arrivano venti profughi in un posto di polizia, di questi nessuno vuole farsi fotosegnalare, io ne prendo uno con la forza e lo accompagno dove ci sono i macchinari. Questo fa una resistenza passiva. Fare la resistenza passiva significa stare immobili, con le braccia incrociate. Cosa faccio? E se poi è una donna? E se è un bambino piccolo? Ricordo solo che abbiamo già visto portar via donne e bambini con la forza. Adesso ci tocca vedere anche il filo spinato. Non so... Oltre al fatto che per prendere le impronte con questi nuovi macchinari ci dev’essere veramente la totale disponibilità. Allora tu mi devi dire come faccio a farglielo fare con la forza!
Ma poniamo anche che tutti si fanno fotosegnalare. Dublino III prevede che tutti coloro che si fanno fotosegnalare stiano qui. Bene, siamo strutturati per accogliere tutte queste persone, peraltro contro la loro volontà? Anche stamattina ho sentito qualcuno denunciare scandalizzato che a Cagliari sono arrivate settecento persone e che solo dieci si sono fatte fotosegnalare. Adesso non voglio fare il Marzullo della situazione, ma fatti la domanda e datti la risposta! La risposta è evidente: non ti fai fotosegnalare perché qui non ci vuoi rimanere!
Il fatto è che la soluzione può essere solo politica e poi servirebbe un vero piano Marshall per questi paesi. Anche la distinzione profugo da guerra, profugo da fame; mah, vorrei fare un’intervista, chiedendo a tutti e due singolarmente: "Tu come te la passi?”. Temo di ottenere la stessa risposta. Però ai secondi dobbiamo dire che devono tornare dove muoiono di fame!
Ora, è vero che l’Austria ha accolto tante persone, è vero che la Germania ha accolto tante persone, ed è giusto che il problema sia di natura europea, ma se tutti si mettono a costruire muri...
Qui il rischio è quello di una saturazione progressiva, per cui non c’è spazio per nessuno da nessuna parte. Adesso la Turchia farà da filtro quindi il flusso si attenuerà, ma qui ci sono anche i filtri di chi ha già sollevato le barriere e i fili spinati.
Io faccio sempre l’esempio della diga che rompe l’invaso: l’acqua deve poi trovare uno sfogo.
Mi hanno detto che a Ventimiglia ci sono i tassisti che, per 200 euro a testa, ti caricano su e via. Così però crei l’illegalità. Cioè noi alla fine andremo a foraggiare le parti meno sane della nostra società. Al Brennero poi c’è un territorio abbastanza frastagliato: puoi controllare l’autostrada e il treno, ma i sentieri non li controlli. Ci sono le vie dei vecchi contrabbandieri: passeranno da lì.
Insomma, puoi provare a tappare qui e lì, ma l’acqua passa, non c’è niente da fare. E così gli uomini.
Io continuo a chiedere: perché non strutturiamo invece noi un percorso e lo rendiamo legale? Sono convinto che identificare queste persone sia assolutamente indispensabile, purché venga fatto all’insegna della correttezza etica e relazionale. E non tanto per prevenire il terrorismo, ma per prevenire e ammortizzare i possibili effetti di insediamenti stanziali ai margini della legalità. Qui il rischio è di trovarci con migliaia di persone destinate a diventare dei fantasmi e che si troveranno nella necessità di delinquere per sopravvivere, essendo escluse dai circuiti legali.
Su Bolzano già si vedono gli effetti. La Lega qui era un partito sconosciuto. Ebbene, per curiosità, l’anno scorso sono andato a vedere il comizio di Salvini in piazza Matteotti. Non c’era lo spazio per mettere uno spillo. Tre anni fa non ci sarebbe andato nessuno. È un segnale, una novità che dovrebbe interrogarci anche su cosa stiamo lasciando ai nostri figli. L’emergenzialità legata all’immigrazione e la crisi del mercato del lavoro, che è arrivata anche in Alto Adige, sta mettendo in concorrenza due fasce deboli: i poveri locali e i disperati del mondo.
Non sono ottimista. Anche perché in questi due anni le scelte politiche che sono state fatte non hanno davvero affrontato il problema. Anche in ambito locale, l’unica cosa che ho sentito è: "Abbiamo trovato dieci appartamenti, abbiamo trovato due paesini di accoglienza”. E le scuole? Come si stanno preparando rispetto a questo nuovo afflusso? Con quale gradualità ci sarà l’inserimento nella scuola, con quale gradualità ci sarà l’inserimento nel lavoro, come ci prepariamo a convivere con persone di cultura e religione diversa?
Io sono sardo. Noi sardi abbiamo un forte senso di appartenenza. Io, per esempio, vivo in Alto Adige da 17 anni e ancora nel mangiare sono legato alla mia terra. Mangio volentieri anche i canederli, ma non puoi pretendere di snaturarmi. Attenzione, tutti dobbiamo rispettare le leggi, questo sì, ma come ci regoliamo sugli altri aspetti? Da sardo ti dico che quando venivano i turisti dove abito io, li chiamavamo gli "stranieri”! Non so se rendo l’idea, provavamo un senso di invasione. Ecco, io credo che il compito, il dovere di una società moderna e aperta sia di ammortizzare queste tensioni, di renderci accettabile il diverso, di amalgamare il sistema, ognuno con le proprie diversità. Io penso che questo sia possibile, ma serve una politica intelligente.
Quali sono i rapporti con le organizzazioni umanitarie?
Di fronte a scene di disperazione visibili, a essersi mossi per primi sono stati semplici cittadini, poi pian piano si è mobilitato tutto il sistema, la politica forse per ultima. Devo dire che qui in Alto Adige c’è stata sempre molta collaborazione con le varie realtà. Purtroppo la polizia paga uno scotto che si chiama G8. Lì ci sono stati dei gravi errori gestionali, comportamentali, e anche un indirizzo politico sbagliato. Nella dissennatezza del panico è successo di tutto e ancora oggi scontiamo quell’idea di polizia. Fortunatamente io ho vissuto e vivo una polizia smilitarizzata, una polizia sana dal punto di vista relazionale. Anche rispetto a questo fenomeno, senza nascondere le eccezioni del caso, ho visto grande disponibilità. I pochi casi di intolleranza mi sembrano da imputare più al senso di impotenza davanti a decisioni prese altrove.
Comunque i rapporti con le associazioni umanitarie e le associazioni in genere, nella gestione del problema profughi, sono sempre stati ottimi, pur nella diversità dei compiti e delle visioni.
Chi si occupa soltanto di aspetto umanitario non riesce a vedere quelle che sono le esigenze giuridiche, non riesce a percepire questo aspetto. Mentre chi fa il poliziotto percepisce prima di tutto la responsabilità diretta del carico giuridico: se fai qualcosa sei perseguito penalmente, e quindi c’è maggiore attenzione. La fermezza e la determinazione a non far salire una persona sul treno non è determinata dal fatto che io personalmente non voglio far salire quella persona; la verità è che se lo faccio salire perdo il posto di lavoro. Perché alla fine la sintesi è questa. Allora uno si trova anche imbrigliato in una situazione in cui non vorrebbe trovarsi.
Come il fatto di farli scendere dal treno. I colleghi si sfogano: "Li facciamo scendere sapendo benissimo che salgono su quello dopo”. C’è anche il timore di far succedere degli incidenti: fai scendere due figli, gli altri restano sul treno, involontariamente si possono creare situazioni drammatiche...
La polizia di Bolzano, pur scontando carenza di organici, mi sembra abbia dimostrato sensibilità e attenzione al fenomeno. La forte presenza sindacale ha aiutato molto a guidare anche chi poteva oscillare su posizioni un po’ meno moderate. Perché, attenzione, i carichi di stress sono notevoli. Tu immagina di lavorare su un treno dove devi fare tutte le cose che abbiamo detto mentre il collega tedesco e quello austriaco sono lì per osservarti e riferire come hai svolto il tuo lavoro.
Io ho fatto dei viaggi coi colleghi per vedere come vivevano tutto questo. Allora, quando incontri un immigrato devi prenderlo e fargli attraversare i vari vagoni fino alla fermata. Questi profughi poi sono incazzati neri, perché li stai facendo scendere, e loro hanno un biglietto pagato fino a Monaco di Baviera! E poi c’è il tifo da stadio, con curva nord e curva sud, con alcuni passeggeri che urlano: "Fateli scendere!”, e altri: "Ma poveracci, cosa fate?”. Insomma, capisci che lavorare tutti i giorni in questo contesto... Un collega mi diceva che a volte gli verrebbe da sbottare: "Ma scendo io! Lascio tutti su e alla prossima fermata scendo io!”. Perché si arriva davvero all’esasperazione.
Considera anche che un poliziotto, un agente, quindi senza responsabilità generali, prende circa 1.300 euro al mese. Bene, prendere 1.300 euro al mese in una città come Bolzano significa essere sulla soglia di povertà. Qui l’affitto di un monolocale si aggira sui 6-700 euro al mese. Questo è. Fino a qualche mese fa non era riconosciuta neanche l’indennità di ordine pubblico che sono dieci euro al giorno. Io avevo posto pure la questione sanitaria: c’è il problema della Tbc, della scabbia e di altre malattie infettive. Ho chiesto che almeno si facessero dei corsi di formazione per i colleghi. Risposta: "Si mettano la mascherina e i guanti!”. Per fortuna, sotto questo aspetto, il questore è stato molto disponibile. D’altra parte, un’epidemia è destabilizzante per tutto il sistema.
Alla fine la cosa che più mi dispiace è non sapere cosa stiamo costruendo per le prossime generazioni. A volte a mio figlio lo dico: "Non so cosa ti lascio”. Da bambino la storia del muro di Berlino mi faceva una grande impressione, non riuscivo a capire come mai, ricordo le discussioni con mio papà: com’era potuto succedere... e poi improvvisamente l’hanno buttato giù. È stata una gioia incredibile! E ora invece...
(a cura di Barbara Bertoncin e Monika Weissensteiner, pubblicato su UNA CITTÀ n. 229 / 2016 marzo)