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Immigrazione. Sanatoria, espulsione e condanne penali. La sentenza del Consiglio di Stato
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Articolo di Claudia Moretti
27 ottobre 2010 13:35
 
Una recente sentenza del Consiglio di Stato, la numero 7209 del 29 settembre 2010, ha deciso in merito ad un caso che rispecchia purtroppo quello di molti stranieri extracomunitari, aspiranti alla regolarita'.
E' la questione sulla esperibilita' delle procedure di sanatoria nei confronti di soggetti imputati del reato di non ottemperanza al decreto di espulsione, contenuto all'art. 14 comma 5 ter del D.lgs. 286/1998, recentemente novellato.
Si tratta di una domanda non banale né scontata.
Se e' vero che ogni dettato normativo e' specifico, tanto la norma generale o quanto quella contenuta nelle leggi speciali delle varie sanatorie, e' altresi' vero che la giurisprudenza si e' piu' volte spesa in favore degli stranieri. Ha talvolta ritenuto irrilevante il trascorso amministrativo e giudiziario dello straniero e lo ha considerato ininfluente se non valutato in concreto e in relazione alla specifica situazione di vita.
Si è assistito, ad esempio, a pronunce dei tribunali ove si specifica che l'espulsione non è di per sé ostativa al rilascio del permesso di soggiorno, laddove non vi sia un concreto apprezzamento della pericolosita' sociale e per l'ordine pubblico dell'espulso. E' allora normale e ovvio che gli stranieri si pongano il legittimo dubbio che pure le conseguenze relative all'espulsione stessa, possano esser trattate alla medesima stregua. Non e' cosi', secondo il Consiglio di Stato, che ha così definitivamente interpretato l'art. 1 ter, comma 13 del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, la norma che esclude la possibilità di sanatoria per coloro che hanno riportato condanne, anche a seguito di patteggiamento, per i delitti ricompresi nell'elenco di cui all'art. 380 e 381 c.p.p. Si tratta, in altre parole, dei reati che prevedono l'arresto obbligatorio o facoltativo. A quest'ultima categoria (art. 381 c.p.p.) appartengono i reati con la pena massima prevista superiore a tre anni di reclusione. A questa categoria, pertanto, ad avviso del Consiglio di Stato non puo' non appartenere anche il reato di cui all'art. 14 comma 5 ter, che prevede una pena massima di reclusione fino a quattro anni.
E non fa una piega, in punto di diritto. Ma le ragioni che hanno spinto il ricorrente ad esperire due gradi di giudizio e a sfidare il dettato della legge, sono degne di attenzione.
In primo luogo, la concessione del provvedimento di regolarizzazione da parte dell'amministrazione e' un provvedimento che gode di una certa discrezionalità: non puo' ritenersi sufficiente la motivazione dell'avvenuta condanna per un reato, che pur avendo in astratto le caratteristiche ostative indicate dalla norma, occorre invece procedere ad una valutazione complessiva del caso e darne debito conto nella motivazione. Cosa che nel caso di specie non era avvenuta.
, non puo' non rilevarsi come il reato in questione, rappresenti una fattispecie particolarmente insidiosa e piu' volte contestata anche dalla magistratura di merito. Non solo per il mero esistere come fattispecie penale e non amministrativa, ma soprattutto per l'entita' della pena che appare, a paragone con numerosi altri reati del nostro ordinamento, chiaramente sproporzionata ed eccessiva. La legge impone, inoltre, norme processual-penalistiche molto gravose per l'art. 14 comma 5 ter: l'arresto obbligatorio.
Cio' non di meno, non lo si puo' non ritenere che una mera conseguenza della clandestinita' e non un comportamento ritenuto socialmente disdicevole o riprovevole.
Il Consiglio di Stato ha scelto una soluzione di tipo formalistico, piuttosto che guardare alla sostanza, contrariamente a quanto hanno fatto numerosi altri tribunali che in questi anni hanno contribuito ad interpretare in modo umano la schizzofrenia e la perfidia del legislatore in materia di immigrazione.
Speriamo ci ripensi.
 
 
 
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