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Immigrazione. Libertà di circolazione dei lavoratori e vantaggi sociali nell’Ue
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Articolo di Cristiana Olivieri *
7 gennaio 2014 17:16
 
La libertà di circolazione all’interno del territorio europeo è da sempre stata uno dei punti principali delle politiche comunitarie, nonché motivo di fondo che ha ispirato la quasi totalità delle normative europee.
Tra queste ultime è estremamente importante il regolamento (CEE) n. 1612 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, modificato dalla direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004 .
Tale regolamento all’art. 7 recita: “1.  Il lavoratore cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri Stati membri, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato. 2. Egli gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.”; tutto ciò in evidente applicazione del principio generale di parità di trattamento, e quindi del divieto di discriminazione – sia essa diretta o indiretta – tra i cittadini dei vari Stati membri.
Proprio su questo argomento, la Corte di Giustizia si è pronunciata con estrema chiarezza nella sentenza del 20 giugno 2013 relativa alla causa C-20/12 (Elodie Giersch contro Granducato di Lussemburgo), affermando, come vedremo, che i vantaggi – nel caso di specie, sussidi al diritto di studio – non possono essere concessi da uno Stato membro esclusivamente sulla base del requisito di residenza nello stesso Stato membro.
Più nello specifico, la questione riguarda la concessione di borse di studio da parte dello Stato del Lussemburgo a studenti che risiedono nel suo territorio. A seguito dell’applicazione della normativa lussemburghese, che legava le concessioni alla residenza in Lussemburgo, sono rimasti conseguentemente esclusi gli studenti non residenti nello Stato, ma comunque figli di genitori che lavoravano in Lussemburgo, sebbene residenti in altro Stato limitrofo.
Tale situazione è stata portata dai ricorrenti davanti al Tribunale Amministrativo del Lussemburgo, affermando che si trattava di una vera e propria discriminazione sulla base della residenza e che violava l’art. 7 del regolamento n- 1612/68 in relazione ai vantaggi sociali; il Lussemburgo si è difeso spiegando che la normativa statale aveva lo scopo di promuovere l’istruzione superiore dei residenti.
La questione viene così rimessa alla Corte di Giustizia, che si pronuncia in maniera netta, affermando che il sussidio agli studi ha natura di vantaggio sociale, e in quanto tale deve essere garantito in egual modo non solo ai residenti e ai lavoratori migranti residenti in uno Stato membro, ma anche ai lavoratori transfrontalieri che svolgono la loro professione in quello Stato, pur non risiedendovi. In sintesi, i figli di residenti, ad esempio in Francia, ma che lavorano stabilmente in Lussemburgo, non possono essere esclusi dal suddetto sussidio solo perché, pur lavorandovi, non risiedono nello Stato del Lussemburgo.
Sebbene infatti l’obiettivo della normativa lussemburghese, ovvero quello di incentivare gli studi superiori nel proprio territorio, sia del tutto legittimo, esso non può però ostacolare la parità di trattamento tra i cittadini europei sulla base della residenza; essa infatti impedirebbe la libera circolazione dei lavoratori e andrebbe a privare del vantaggio sociale proprio dei cittadini comunitari che hanno un legame economico-lavorativo con lo Stato in questione, sebbene non vi risiedano stabilmente.
Evidentemente ciò non può in alcun modo essere giustificato dall’obiettivo della normativa lussemburghese, come spiega la Corte nelle conclusioni: “Se è pur vero che l’obiettivo volto ad incrementare la percentuale dei residenti titolari di un diploma di istruzione superiore al fine di promuovere lo sviluppo dell’economia del medesimo Stato membro costituisce un legittimo obiettivo idoneo a giustificare tale disparità di trattamento (…), un siffatto requisito eccede, tuttavia, quanto necessario ai fini del raggiungimento dell’obiettivo perseguito, considerato che impedisce di tener conto di altri elementi potenzialmente rappresentativi del reale grado di collegamento del richiedente il sussidio economico con la società o con il mercato del lavoro dello Stato membro interessato, quali il fatto che uno dei genitori, che continui a provvedere al mantenimento dello studente, sia un lavoratore frontaliero, sia stabilmente occupato in tale Stato membro ed abbia ivi già lavorato per un significativo periodo di tempo”.
In buona sostanza, con questa recente pronuncia la Corte ha reso ancora più effettivo il principio secondo cui i figli di cittadini che lavorano in paesi limitrofi ad uno Stato membro devono essere messi in condizioni di parità nella fruizione di vantaggi sociali – ad esempio la concessione di una borsa di studio -, rispetto a quelli dei cittadini residenti in quello Stato; in questo modo, è salvaguardata la libertà di circolazione dei lavoratori nel territorio europeo, senza che il requisito della residenza determini l’esclusione di altri cittadini che, pur senza abitarvi, hanno comunque un evidente legame economico-lavorativo con quello Stato.

* consulente legale Aduc

 
 
 
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