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Immigrazione. Illegittime le espulsioni con divieto di reingresso superiore ai cinque anni
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6 aprile 2012 11:08
 
Si e’ pronunciata il 2 aprile scorso la Corte di Cassazione, I sezione penale, con la sentenza n. 12220/2012, che mette finalmente un punto fermo sulla legittima durata del divieto di reingresso in Italia a seguito di espulsione amministrativa.

Chiarisce la Corte che deve ritenersi illegittimamente emesso, per insanabile contrasto con la Direttiva Rimpatri europea, ogni divieto prefettizio di reingresso per un periodo superiore ai cinque anni. Ne consegue che lo straniero espulso per un periodo ricompreso superiore, il quale faccia rientro in Italia dopo che siano trascorsi cinque anni dalla data del decreto di espulsione non sara’ punibile in base all’art. 13, comma 13 del d.lgs. 286/1998, il quale prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per chi trasgredisce all’ordine del Prefetto.

Non solo. Occupandosi la sentenza in oggetto di un caso di espulsione disposta nel 2004, quando ancora il Testo Unico italiano imponeva al Prefetto di sancire il divieto di reingresso per un periodo ricompreso fra un minimo di cinque ed un massimo di dieci, la Corte ha altresi’ implicitamente precisato che il principio in essa affermato deve intendersi applicabile anche per le espulsioni emesse nel periodo precedente rispetto all’entrata in vigore (in via self-executing, per scadenza del termine ultimo per il suo recepimento in Italia) della Direttiva comunitaria.

Questo il passaggio piu’ rilevante della sentenza:
”La Corte di Giustizia della Comunità Europea con la nota pronuncia 28.04.2011 nella causa El Dridi ha accertato, con l’autorità che le è propria in materia, l’incompatibilità del diritto interno italiano in materia di immigrazione con detta Direttiva.
Tra le disposizioni di quest’ultima, qui interessa quella di cui all’art. 11, paragrafo 2, secondo cui “la durata del divieto di ingresso è determinata tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera i cinque anni”.
È di tutta evidenza, allora, come si ponga in insanabile contrasto, con la vincolante Direttiva Europea, la normativa italiana di cui all’art. 13 D. L.vo 286/98, che pone il divieto di reingresso per dieci anni e, comunque, per un tempo non inferiore ai cinque anni.
Nella fattispecie il S.S. ha fatto rientro in Italia (essendo stato espulso nel Luglio 2004) ben dopo i cinque anni (a quasi sette anni di distanza), per cui, doverosamente disapplicata la normativa interna, l’imputato ricorrente deve essere assolto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.”


Questa piccola vittoria non toglie, a nostro avviso, l’illegittimita’ dell’intero percorso che porta alle automatiche e troppo frequenti espulsioni amministrative nei confronti degli stranieri in Italia, escludendo di fatto l’applicazione dell’apposito istituto del rimpatrio volontario. Quantomeno, pero’, sancisce la riduzione effettiva ad un massimo di cinque anni del termine previsto per lo straniero che voglia eventualmente poi rientrare nel Paese, dando cosi’ un importante segnale positivo nel senso dell’adeguamento della giurisprudenza di merito italiana al dettato della normativa comunitaria, nello specifico alla Direttiva Rimpatri.

Ancor piu’ auspicabile, inoltre, sarebbe stato che la Suprema Corte avesse colto l’occasione per ribadire l’obbligo per il Prefetto di motivare, come sarebbe logico fare, le ragioni che nel caso concreto lo portino ad applicare, per il divieto di reingresso, il termine massimo di cinque anni, anziche’ quello minimo di tre anni previsto dal nostro Testo Unico, o ancora un termine intermedio, valutate le esigenze del singolo caso e le situazioni della singola persona.
Per non menzionare il contrasto che resta con la Direttiva europea la quale, a differenza della normativa italiana, non impone alle amministrazioni un termine minimo per il rientro dello straniero espulso, ma consente soltanto che lo si possa escludere per un periodo fino a cinque anni. Ma per adesso accontentiamoci.
 
 
 
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