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La Carta di soggiorno per coniuge di cittadino Ue. L'interpretazione della Questura di Firenze
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Articolo di Claudia Moretti
7 giugno 2010 18:09
 
Il cittadino extracomunitario che si trova in Italia, entrato irregolarmente e regolarizzatosi successivamente a qualsivoglia titolo, che sposa un cittadino Ue, ha diritto alla carta di soggiorno ex art. 10 Dlgs 30/2007 o solo al permesso di soggiorno per motivi familiari, per pochi mesi, 1 anno, 2 anni o addirittura 5 anni? La mancanza di un originario visto di ingresso, superato dalle successive vicende di sanatorie e/o di matrimonio, puo' esser motivo di diniego del titolo piu' favorevole?
Spesso i coniugi stranieri di cittadini italiani (e dunque Ue) si ritrovano con un immotivato permesso al posto della carta di soggiorno prevista per legge, e le questure, incalzate dai legali, danno motivazioni e interpretazioni normative che non convincono.
Non convince, ad esempio l'interpretazione della Questura di Firenze, secondo cui uno straniero che abbia fatto ingresso irregolare anni fa, e successivamente si sia regolarizzato per motivi di lavoro, se coniugato da poco con cittadina italiana non abbia diritto alla carta di soggiorno ex art. 10 Dlgs 30/2007 bensi' al solo permesso di soggiorno ex art. 19 t.u. Dlgs 286/98.
Assume, infatti, la Questura che la disposizione di cui all'art. 5 del Dlgs 30 del 2007, che cosi' recita:
“...[..]...2. I familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro sono assoggettati all'obbligo del visto d'ingresso, nei casi in cui e' richiesto. Il possesso della carta di soggiorno di cui all'articolo 10 in corso di validita' esonera dall'obbligo di munirsi del visto.” , non consenta il rilascio della carta di soggiorno a coloro che non siano entrati con l'apposito visto di ingresso. Chi si trova in dette circostanze, ossia si trova gia' in Italia ad altro titolo, deve necessariamente uscire per poi rientrare con un visto che giustifichi il rilascio del corrispondente titolo di soggiorno.
Riteniamo che questa interpretazione della legge non sia corretta e, invero, sia contra legem. Oltre che irragionevole illogica e inutilmente vessatoria.
Tale norma, infatti, ribadisce, l'assoggettamento degli stranieri tutti, anche se congiunti di cittadini comunitari, al generale obbligo di ingresso con relativo visto nell'area Schengen, se obbligatorio. Non rappresenta, invece, alcuna pregiudiziale rispetto al rilascio del titolo previsto dalla normativa, consistendo in un mero richiamo alle generali modalita' di ingresso nel caso il coniuge del cittadino Ue si trovi all'estero e debba entrare in Italia senza che abbia ancora conseguito il titolo di cui all'art. 10 (o anche altro titolo se ne ha uno). Infatti, non v'e' dubbio che un cittadino indiano, ad esempio, anche se sposato ad una francese, al suo ingresso in Italia e in Europa, dovra' comunque munirsi del visto per superare i controlli alla dogana.
Certo cio' non significa – ne' esclude- che chi si trovi gia' in Italia ad altra ragione, e che magari vi soggiorna da tempo, gia' da prima di sposarsi, debba porsi il problema del visto di ingresso, non avendo ne' l'esigenza di andare via ne' quella di rientrare.
Peraltro, la normativa di cui all'art. 5 richiamata, non puo' nemmeno ritenersi applicabile a coloro che all'epoca dell'ingresso in Italia non erano ancora “familiari di cittadino UE”, perche' non ancora coniugati.
Anche la norma di cui all'art. 10 comma 3, che elenca fra i documenti che corredano la richiesta di carta di soggiorno il visto di ingresso se richiesto, va letta in tal senso: il visto di ingresso lo si richiede a chi fa ingresso in Europa e non gia' a chi, regolare, e' gia' presente sul nostro territorio ed ha conseguito permessi di soggiorno da anni.
Inoltre, appare evidente l'illogica stortura anche se si valuta l'assunto che, ad avviso della Questura, lo straniero potrebbe “sanare” il problema uscendo e poi rientrando con visto di ingresso ex art. 5.
Quella proposta dalla Questura di Firenze e' interpretazione normativa avversa ad ogni regola di ragionevolezza e di logica. Risulterebbe, infatti, inutilmente vessatorio, ingiustamente punitivo e artificioso l'obbligo di sottoporsi al viaggio di andata e ritorno richiesto.
Delle due l'una. O si ritiene che l'avvenuto ingresso senza visto di uno straniero non consente ormai, in virtu' dell'onta del passato, una regolare sua permanenza in Italia secondo i crismi propri della legge o allora non puo' certo assurgere a “ripulitura” di un ingresso irregolare il costringere ad uscire con il solo scopo di rientrare, sol per avere un visto sul passaporto!
Nella prima ipotesi si e' di fronte ad una interpretazione contra legem.
Si contravverrebbe cosi' all'intero impianto normativo che tiene in considerazione massima gli sviluppi e le evoluzioni delle vicende integrative degli stranieri in Italia, quelle familiari, tanto piu' se con nostri concittadini (si pensi solo alla norma generale di cui agli artt. 5 e 19 testo unico sull'immigrazione). Non solo. Cio' sarebbe in grave contrasto, per ragioni sistematiche e di principi fondamentali del diritto, con le regole penali che consentono la riabilitazione del soggetto che ha commesso reato. Inoltre non puo' oggi dirsi ancora “sanzionabile” un comportamento che reato non era. E poi sanzionato come? Semplicemente con il rilascio di un titolo che non rispecchia la realta' dei fatti e il grado di integrazione cui corrisponde?
Infine, detta interpretazione si porrebbe in conflitto con la normativa in materia di cittadinanza per coniugi con cittadino italiano. Paradossalmente, quando lo straniero avra' maturato i termini per chiedere la naturalizzazione, non avra' una carta di soggiorno come vuole la legge, ma il semplice permesso come vuole la questura, creando una bizzarra e contraddittoria progressione nei passi di integrazione previsti.
E quindi, anche in quel caso, sara' contestato allo straniero l'ingresso, magari anni e anni prima, senza visto?
 
 
 
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